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Grecia - Appello per Rouvikonas

riceviamo e diffondiamo:

Appello alla solidarietà in vista del processo del 13 ottobre 2021!

SOSTENIAMO GIORGOS KALAITZIDIS E NIKOS MATARAGKAS DEL GRUPPO ROUVIKONAS

Due anni dopo una massiccia mobilitazione internazionale di solidarietà che ha permesso a due membri di Rouvikonas di evitare il carcere, una nuova minaccia senza precedenti incombe sul gruppo. Un processo kafkiano attende Giorgos e Nikos il 13 ottobre, sulla base di false accuse. Questo tentativo di criminalizzare il movimento sociale può costare l’ergastolo a questi due attivisti politici. Serve una nuova mobilitazione internazionale.

I fatti: il 7 giugno 2016 un narcotrafficante è stato giustiziato ad Atene, nel quartiere di Exarcheia. Questa esecuzione è rivendicata da un collettivo di autodifesa chiamato “Milizia popolare armata” che sostiene che il narcotrafficante si stesse comportando in modo violento, minaccioso e pericoloso a Exarcheia, sia nei confronti dei membri del movimento sociale sia dei residenti del quartiere. Passano tre anni. Nessun membro di Rouvikonas è preso di mira dalle indagini.

Nel luglio 2019, Kyriakos Mitsotakis è salito al potere in Grecia e promette, tra l’altro, di farla finita “con ogni mezzo” con il gruppo anarchico Rouvikonas, rinomato in tutto il Paese per le sue azioni di solidarietà e la sua resistenza. Dopo pochi mesi, nel marzo 2020, un giudice istruttore ha rilevato il caso e ha incriminato due attivisti di Rouvikonas: Nikos Mataragkas e Giorgos Kalaitzidis, rispettivamente per omicidio e istigazione all’omicidio. Ma nel giugno 2020, dopo la loro comparizione davanti al giudice istruttore, sono stati entrambi rilasciati senza cauzione e il procedimento è stato logicamente archiviato.

Colpo di scena nell’aprile 2021: nonostante il fascicolo contro i membri di Rouvikonas sia vuoto, lo Stato e i meccanismi di repressione decidono improvvisamente di perseguire Giorgos e Nikos sulla base di false accuse e il loro processo è fissato per il 13 ottobre 2021! Questa manipolazione da parte del potere fa di Giorgos e Nikos suoi ostaggi e mira a distruggerli politicamente e fisicamente: rischiano l’ergastolo! L’obiettivo è anche danneggiare l’immagine del gruppo Rouvikonas e criminalizzare il movimento sociale in Grecia, come fecero cinquant’anni fa i colonnelli al potere.

Di fronte a questo processo kafkiano, diamo il nostro sostegno agli attivisti politici e di solidarietà Giorgos Kalaitzidis e Nikos Mataragkas e chiediamo la fine immediata del procedimento.

Chiediamo di rafforzare il comitato di supporto internazionale e invitiamo inoltre a sostenerli finanziariamente in questa resa dei conti che non si limita a questo processo per il gruppo Rouvikonas: il gruppo è spesso oggetto di procedimenti giudiziari per motivi meno gravi ma molto costosi (in totale per tutte le azioni attualmente giudicate e che lo saranno nei mesi a venire, le spese legali del gruppo ammontano a diverse decine di migliaia di euro): per la raccolta fondi, https://fr.gofundme.com/f/soutien-giorgos-et-nikos-athnes

Infine, chiamiamo chi può, ad una manifestazione di sostegno il giorno del processo: mercoledì 13 ottobre alle 9:00 presso il tribunale Efeteio, via Degleri 4 ad Atene. Sono gradite anche foto di azioni da altri luoghi. Non lasciamo solo nessuno di noi nelle grinfie del potere.

Comitato di supporto internazionale per Giorgos Kalaitzidis e Nikos Mataragkas

(segue un lungo elenco di adesioni a cui ci si può aggiungere contattando la seguente mail:

support@rouvikfrancophone.net)

Sulle azioni di resistenza e solidarietà di Rouvikonas in Grecia (video di 10 minuti):

https://www.youtube.com/watch?v=342ZzVVCm70

Alcune info sulle attività dell’organizzazione Rouvikonas (testimonianza dei membri delle delegazioni di solidarietà che hanno incontrato il gruppo):

– Rouvikonas è un gruppo di solidarietà che svolge frequentemente azioni con i precari greci e migranti, compresa la distribuzione di cibo e altre forme di aiuto.

– Rouvikonas è un gruppo antifascista, ha creato ad esempio la rete antifascista Distomo (che ha permesso di cacciare Alba Dorata dal centro di Atene, molto prima delle sanzioni legali)

– Rouvikonas è un gruppo misto in cui sono presenti ragazze e dove vengono respinti sessismo e machismo (il gruppo comprende una sezione femminista molto attiva e autonoma).

– Rouvikonas comprende membri di diverse nazionalità e origini.

– Rouvikonas è composta prevalentemente da lavoratori e precari.

– Rouvikonas rifiuta l’avanguardia e non vuole qualificarsi come tale.

– Rouvikonas non agisce solo a Exarcheia, ma in tutta la Grecia.

– Rouvikonas offre regolarmente incontri pubblici per confrontarsi con persone che vogliono saperne di più ed eventualmente unirsi al gruppo.

– Rouvikonas svolge spesso azioni in collaborazione con altri gruppi (anarchici di Salonicco, curdi, migranti, antifas, solidarietà…).

– Rouvikonas è affiliata alla Federazione Anarchica di Grecia A.O. (anarxiki omospodia).

– Rouvikonas partecipa anche a incontri, concerti o anche tornei di calcio antifa che riuniscono diversi gruppi.

#RoundRobin #Anarchist #News #Anarchism #Media #Anarchismo #Informazione #Italia #Anarchici

Originariamente pubblicato su: https://roundrobin.info/2021/10/grecia-appello-per-rouvikonas/

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Riflessioni a partire da "Un pugno di domande alla galassia anarchica"

riceviamo e diffondiamo uno scritto a partire dal testo “Un pugno di domande alla galassia anarchica e non solo”

Qui il pdf dell’articolo

In risposta al pugno

Avendo letto “Un pugno di domande alla galassia anarchica e non solo” vi propongo alcune considerazioni a proposito delle tante questioni aperte dal suddetto scritto.

Innanzitutto non mi presento, saranno mi auguro le mie parole a farvi comprendere il mio punto di vista. Se scrivo in questo spazio è perché coltivo ancora la speranza di trovare tra chi legge un’intelligenza libera che vada al di là delle definizioni e delle scuole di pensiero, degli slogan e dei dogmi, del politicamente corretto e dell’autocensura.

Anch’io provo inquietudine, un’inquietudine che però è maturata nel tempo, in mezzo a una società che uccide in maniera automatica il pensiero e quindi la capacità di giudizio.

La catastrofe ci mette alla prova, la critica alla società industriale e allo stato sarà vissuta fino in fondo o verrà affondata dalla paura di essere etichettati come fascisti, complottisti, omofobi e via dicendo?

Una società industriale avanzata genera malati perché rende gli uomini incapaci di controllare il proprio ambiente e, quando essi crollano, sostituisce una protesi ‘clinica’ alle RELAZIONI spezzate. Contro un simile ambiente gli uomini si ribellerebbero se la medicina non spiegasse il loro scombussolamento biologico come un difetto della loro salute, invece che come un difetto del modo di vivere che viene loro imposto o che essi impongono a se stessi. L’assicurazione di personale innocenza politica che la diagnosi offre al paziente serve come una mascherina igienica che giustifica un ulteriore asservimento alla produzione e al consumo.

Ivan Illich in Nemesi Medica

“Tutta la nostra civiltà è fondata sulla specializzazione, la quale implica l’asservimento di coloro che eseguono a coloro che coordinano; e su un simile fondamento non si può che organizzare l’oppressione, di certo non alleviarla.”

Simone Weil in Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale

“Una mela al giorno toglie il medico di torno. Basta avere una buona mira.”

W. Churchill

L’istituzione del coprifuoco e della quarantena generalizzati, in particolare nelle città e nei paesi dove il contagio non c’era, sono state assolutamente nocive e liberticide. L’isolamento forzato indiscriminato, da nord a sud, dai borghi alle città, dalla montagna al mare, ha fomentato paure e procurato danni alla salute di qualsiasi persona. La colpevolizzazione di chi passeggiava in solitudine e della fascia più giovane della popolazione ha portato al delirio persecutorio e alla diffusione di malesseri di ordine psichico molto gravi. L’industria degli psicofarmaci certamente ci ha guadagnato, d’altronde come si dice? Mors tua vita mea.

Non mi permetterei mai di dare indicazioni di gestione delle epidemie, non ho titoli da vantare per questo ma c’è una storia inglese che narra di una città di nome Leicester che affrontò il vaiolo in questo modo: “non appena emerge un caso di vaiolo, il medico e il proprietario di casa sono obbligati a dichiararlo subito in municipio, pena una sanzione. Per telefono viene subito chiamata un’ambulanza preposta ai casi di vaiolo, che si occupa di tutte le procedure del caso, e così, nell’arco di poche ore, il malato è al sicuro in ospedale. La famiglia e gli abitanti della casa vengono messi in quarantena in ambienti confortevoli e la casa viene disinfettata da cima a fondo. […] Utilizzando questo sistema, la giunta comunale ha espresso l’opinione che la malattia viene debellata in modo pronto e completo a un costo esiguo.” (D.I.)

A Leicester il 23 marzo del 1885 ci fu una grande manifestazione contro l’obbligo vaccinale introdotto con i decreti nazionali inglesi del 1840 e del 1853. Dopo decenni di vaccinazioni neonatali e dei conseguenti danni subiti, i genitori cominciarono a rifiutare di far vaccinare i propri figli. La disobbedienza costava cara, tanti persero i loro beni perché non potevano pagare le gravi sanzioni e finirono in prigione. In seguito alla grande manifestazione del 23 marzo, la vecchia giunta fu destituita e quella nuova diede il via all’esperimento ribelle, assecondando le istanze degli antivaccinisti. Già nel 1887 il tasso di copertura vaccinale era sceso al 10% in città. E nonostante i malauguranti pronostici dei medici vaccinisti, Leicester rispose meglio alle successive epidemie di vaiolo rispetto ad altre città inglesi super vaccinate. Ma il “metodo Leicester” fu completamente dimenticato e messo da parte nonostante le evidenze riportassero il fatto che le misure igieniche e di oculato isolamento avessero dato buoni frutti.

Perché il governo accentrato dello stato dovrebbe essere accettabile in caso di epidemia? La coercizione, i ministeri, le leggi in questo campo sono improvvisamente diventati un bene? Ci siamo già dimenticati che l’emergenza Covid ha sedato nel sangue diverse rivolte carcerarie nel 2020? L’esempio di Leicester non mostra ancora una volta che i problemi, di qualsiasi natura essi siano, occorre prima di tutto assumerseli in prima persona al di là dei titoli di competenza e magari risolverli a livello locale? A Leicester furono i genitori a ribellarsi all’autorità sanitaria e statale, dei non esperti di medicina guidati dalla dolorosa osservazione dei gravi danni procurati ai loro figli e dal sacrosanto dovere di proteggerli.

Mi preme sottolineare che l’incidenza del vaiolo era contabilizzata sul numero dei malati, cioè su coloro che mostravano i sintomi della malattia, non si andava a scovare il virus anche sui “presunti sani” con test preventivi.

“Quando una società si organizza in funzione di una caccia preventiva alle malattie, la diagnosi assume allora i caratteri di una epidemia. Questo supremo trionfo della cultura terapeutica tramuta l’indipendenza della normale persona sana in una forma intollerabile di devianza.” (N.M.)

L’epidemia di Covid è gestita attraverso l’utilizzo massiccio di test preventivi, questi simpatici tamponi, allo scopo di isolare anche chi non presenta sintomi. Il loro impiego presuppone che chiunque debba dimostrare in continuazione di essere sano ossia di non ospitare il virus. Che io sappia, questa procedura non ha precedenti, si basa su test la cui validità non è certissima (si parla in continuazione di falsi positivi o di falsi negativi) ma soprattutto i dati epidemici si basano sul numero dei tamponi effettuati, non su chi si ammala, ossia su chi presenta sintomi. Questa indagine preventiva nutre l’epidemia, fa l’epidemia, e contro ogni buon senso cambia l’idea profana della malattia:

Stamattina al risveglio non mi sento bene, misuro la febbre, ho 38 e mezzo, capisco di essere ammalato e quindi resto a casa finchè non guarisco.

No, non funziona così: stamattina devo andare a fare il tampone perché domani vorrei partecipare a una cerimonia pubblica. Sto bene, mi sento un leone ma devo dimostrarlo, forse nella mia criniera si annida un virus, sono un presunto malato.

Questo tipo di prevenzione presume che finché il tampone non attesta la mia salute, io non la posso esprimere né valutare con le mie sole facoltà. Questa procedura tecnico-burocratica non è nuova, ci serve un certificato di buona salute anche prima di iniziare percorsi vari, quello che è nuovo qui è il fatto che venga usata a tappeto nel corso di un’emergenza sanitaria.

In passato, in caso di epidemia si è ricorso direttamente al vaccino, consigliato o obbligatorio, come metodo di prevenzione. Oggi abbiamo anche quest’altro dispositivo che rende la situazione ancora più ammorbante e stressante: viviamo in un lazzaretto diffuso dal quale usciamo solo al prezzo di un test e solo per 48 ore per poi ritornarci e ricominciare daccapo.

La maggior parte della gente subisce questi dispositivi sanitari, tamponi e vaccini, perché è obbligata a farlo, perché terrorizzata, perché impreparata, perché dipendente, perché succube dell’apparato medico-statale-scientifico-economico-educativo.

La maggior parte della gente si sottopone alle cure mediche che i vari specialisti propinano senza essere minimamente informata sulla composizione delle migliaia dei pillole e sulle loro controindicazioni. Ma cosa ancora più grave, sono gli stessi medici a ignorarle.

I medici, così come gli altri professionisti-esperti, sono educati a ingurgitare e ad accumulare nozioni che serviranno a sostenere il sistema economico industriale esistente dal momento che “L’educazione in funzione di una società fondata sul consumo equivale alla formazione del consumatore.” (P.S.B.) C’è chi ne è cosciente ma va avanti lo stesso e chi a volte venendo a trovarsi di fronte a un muro di illusioni, interessi e falsi miti comincia a pensare, a indagare, a spulciare documenti, libri e riviste: “Scoprii, inoltre, quanto la scienza possa compiere errori atroci. È facile venir catturati da un sistema di convinzioni costruito su fondamenta traballanti e difettose. **Quanto spesso crediamo a qualcosa, non perché abbiamo fatto ricerche approfondite, ma solo perché l’autorità ci dice che è la verità?” (D.I.)

Qualsiasi sapere che non si riesce a tradurre nella semplicità della lingua di tutti diventa dogma. Qualsiasi proposizione se viene accettata come un dogma, senza essere analizzata e compresa con le proprie forze intellettive e intuitive, anche se è la più giusta e inoppugnabile, rende sudditi.

La concezione dello stato, del potere di pochi sulla maggioranza, nelle sue prime arcaiche forme si fondava sul monopolio del sapere da parte di una ristretta casta di sacerdoti. Oggi il sapere è diventato, oltre che monopolio di svariate caste, sempre più oscuro, inaccessibile, intraducibile per manifesta volontà e per la sua stessa natura tecnicista e specialistica. E la Medicina non fa eccezione.

Ci consegniamo così nelle mani di estranei laureati e specializzati nella cura spezzettata del corpo dalla culla alla bara, senza quasi mai afferrare il significato delle diagnosi e delle relative cure, spesso anzi subendole e non mettendole mai in discussione perché alla fine che cosa vuoi capirne tu profano del tuo stesso corpo, del tuo dolore, della tua sofferenza, della tua malattia, del tuo disagio? L’uomo è una macchina tra le altre, se si rompe la lavatrice chiamiamo l’idraulico, se si rompe il corpo chiamiamo il dottore.

“In tutte le società lo sviluppo ha avuto il medesimo effetto: ognuno si è trovato irretito in una nuova trama di dipendenza nei confronti dei prodotti sfornati dal medesimo tipo di macchine: fabbriche, cliniche, studi televisivi, istituti di ricerca.” Prima la gente era in grado “di soddisfare quasi tutti i propri bisogni in un contesto di sussistenza; dopo la plastica ha sostituito la ceramica, le bevande gassate l’acqua, il Valium la camomilla, i microsolchi la chitarra” (P.S.B.)

La critica allo stato industriale e ai suoi sostenitori, ossia agli esperti che lo nutrono e che indubbiamente sono più numerosi rispetto a coloro che lo ostacolano (di oppositori ce ne sono stati diversi nel tempo, certo non tutti guidati dalla stessa determinazione esplosiva del matematico Theodore Kaczynski) dovrebbe portare non solo a lottare contro la polizia, le grandi opere, le carceri ma anche contro l’azione apparentemente benefica della scolarizzazione e della medicalizzazione coatte al di là di questo momento storico ma a partire dalle contraddizioni emerse proprio in questo momento storico.

Le critiche alla gestione pandemica dovrebbero portare a una riflessione su tutto l’apparato sanitario per poter magari arrivare a comprendere che la medicalizzazione della vita è espropriazione dei corpi da parte dello stato.

Fin dall’inizio dell’età moderna lo stato cercò a suon di leggi e repressioni violente di strappare dalle mani delle donne la gestione della maternità e del controllo delle nascite, per ovvi motivi economici di accumulazione di forza-lavoro. La questione dell’aborto rientra in questo fenomeno che se non viene preso in considerazione inficia ogni tipo di analisi con il rischio di cadere nella superficialità di posizioni moralistiche di stampo cattolico, come nel caso del libretto a suo tempo scritto da Silvia Guerini. Nelle sue pagine è la questione etica che prevale e non la critica alla gestione medica dei corpi delle donne, è l’assassinio del feto a essere sotto accusa e non l’assassinio dell’autonomia dell’individuo sostituita dalla morale unica dello stato e della chiesa.

Per farla finita con la propaganda del “eh ma prima le donne morivano di parto, menomale per i medici e per gli ospedali”, è bene riportare alcuni esempi dei danni iatrogeni del sistema sanitario.

Il primo riferimento d’obbligo va fatto all’epidemia di febbre puerperale, “una patologia mediata dall’arroganza dei medici” (D.I.) che si sostituirono alle levatrici nella pratica ostetrica, causando la morte delle partorienti dopo atroci sofferenze. Questo succedeva perché i medici non usavano lavarsi le mani dopo aver toccato altri pazienti o addirittura cadaveri. “I dottori Oliver Wendell Holmes negli Stati Uniti e Ignaz Semmelweis in Austria […] tentarono di convincere i colleghi medici a lavarsi le mani e a seguire di più la pratica ostetrica secondo la tradizione delle levatrici. Entrambi furono ignorati e perfino attaccati professionalmente per le loro idee. Dopo anni di angoscia, vedendo le donne morire inutilmente, lasciarono disgustati il campo della medicina. Holmes divenne uno scrittore. Nel 1865 Semmelweis venne fatto entrare con l’inganno in un manicomio”, (D.I.) dove trovò la morte.

Tra il ’700 e la metà del ‘900 la febbre puerperale lasciò “milioni di bambini orfani di madre, condannati a morire o a vivere una vita di malnutrizione e malattia, spesso costretti a lavorare in miniera, in fabbrica…”, (D.I.) fatto questo che non viene mai contabilizzato nell’analisi delle epidemie che in questo lasso di tempo colpirono il mondo (Usa, Europa, Nuova Zelanda).

Un altro esempio della nocività dell’ingerenza medica in questo campo è l’uso del forcipe durante il parto, l’ennesimo strumento di morte e invalidità di cui penso sia inutile anche discutere.

Il mito della scienza medica dovrebbe essere sfatato affinché si capisca la sua naturale collisione con l’avvento dello stato capitalista.

“La professionalizzazione stessa della medicina nasce dal bisogno di controllo sociale, il che significa che essa non solo doveva distruggere per affermarsi certe pratiche popolari, **ma si sviluppa proprio per distruggerle.* Disciplinare il proletariato, infatti, voleva dire espropriarlo di ogni conoscenza e strumento, che gli permettesse di esercitare un controllo autonomo anzitutto sul suo corpo, sostituendo ad essi un patrimonio di conoscenze scientifiche ‘inoppugnabili’ che si ergeranno contro i proletari come una forza estranea antagonistica.” (I.G.C.)*

La nascita della scienza moderna e di quella medica in questo caso non può essere disgiunta dall’avvento del capitalismo e degli stati nazionali.

Vediamo tutt’ora agire questa stessa dinamica di espropriazione nella continua e mai interrotta colonizzazione delle terre appartenenti alle popolazioni non ancora soggette allo sviluppo. Ovunque nel mondo il fenomeno dell’accaparramento delle terre da parte di multinazionali e stati (in inglese land grabbing) costringe le popolazioni native del Sud America, dell’Africa e dell’India ad abbandonare le terre ancestrali e di conseguenza anche il loro sapersi curare, cibare e riparare nel quadro di un’economia di sussistenza che è allo stesso tempo conservazione del territorio.

“Nonostante numerosi studi abbiano dimostrato quanto non vi sia migliore capacità di conservazione della natura di quella dei popoli indigeni” (I.P.T.), l’ecologia istituzionale continua ad appoggiare politiche capitaliste che nascondono dietro alla definizione “aree protette” tutta la loro carica assassina. Sotto il pretesto della protezione delle foreste e della fauna sono stati istituiti diversi parchi nazionali: se ai nativi viene impedito di accedervi e a volte vengono anche uccisi con la scusa della lotta al bracconaggio, ai turisti invece viene concesso pagando di fare un tour su fuoristrada in mezzo alla “natura selvaggia” che fotografata potrà riempire l’ennesimo album di viaggio prima del ritorno alla giungla cittadina.

“Il modello di protezione ambientale detto ‘conservazione – fortezza’ ha avuto origine in Nord America, ed è stato adottato per la prima volta in quelli che oggi conosciamo come i Parchi nazionali Yosemite e Yellowstone (Corry, 2010). Quando furono creati, nella seconda metà dell’800 i Nativi Americani che vivevano da secoli in quei territori furono sfrattati violentemente, costretti in riserve e ridotti in povertà. Chi si opponeva veniva ucciso.”

“Mentre gli indigeni e i locali venivano etichettati come “bracconieri” se cacciavano per alimentarsi, l’uccisione degli animali per sport o per piacere da parte dei colonizzatori bianchi (La “caccia al trofeo”) era consentita e in molti casi definita, anche oggi, uno strumento utile all’attività di conservazione (Howard, 2013; Wcs, 2018).” (I.P.T.)

Nel colonialismo verde è ancora l’arroganza degli esperti occidentali ad agire: la tecnoscienza capitalista è il mezzo migliore per poter vivere bene su questa terra, l’ideologia e gli interessi economici viaggiano insieme. Invadono le terre indigene per interesse ma agli ignari sudditi occidentali viene detto che è per proteggere quel che resta della “natura selvaggia”. Nel frattempo gli indigeni sfrattati vanno a popolare le aree vicino ai parchi o le periferie urbane, peggiorando le loro condizioni psicofisiche, igieniche, spirituali. Queste immagini di miseria ci arrivano attraverso i mass media e noi ci convinciamo che quei poveracci vivono male non perché hanno perso tutta la loro cultura e natura ma perché non hanno l’elettricità, le medicine, le case e l’istruzione giuste. Prima gli si ruba la zappa e poi andiamo lì a vendergli il trattore, prima viene creato il bisogno e poi venduto a caro prezzo il rimedio. Sul canale Youtube di Survival International numerose sono le testimonianze dirette degli scacciati e delle donne che non avendo più una dimora abitano in baracche fatiscenti e non avendo più l’accesso alla foresta non possono raccogliere gratuitamente la legna, i frutti, le erbe medicinali per sé e per la propria famiglia.

L’espropriazione del sistema economico capitalista trasforma così l’autonomia creativa e naturale delle comunità in morbosa dipendenza da castrazione. È così che la libertà che si definiva direttamente, in un mondo dentro alla natura, come risposta autonoma e creativa alle necessità della vita, si trasforma in richiesta di diritti al padre stato: diritti che mutano i beni che la natura ci offre in merci.

“ ‘Diritto all’aria pura’ significa perdita dell’aria pura come bene naturale. Il suo passaggio a statuto di merce e la sua ridistribuzione ineguale. Non bisognerebbe considerare come progresso sociale obiettivo […] quello che è un progresso del sistema capitalista – cioè la trasformazione progressiva di tutti i valori concreti e naturali in forme produttive cioè come fonte di:

– profitto economico

– privilegio sociale. ” (L.S.C.)

Qualcuno potrebbe forse storcere il naso per l’uso indiscriminato che qui viene fatto dei termini “naturale” e “natura”. La dicotomia tra cultura e natura fa parte del pensiero occidentale da tempo ma si è trasformata in una guerra totale contro la madre terra solo con l’avvento del sistema tecno-industriale. Natura è ciò che ha la capacità di nascere e quindi di autoalimentarsi, di autocurarsi, di autodisciplinarsi in una prospettiva simbiotica di tutte le sue parti. È proprio in questa prospettiva simbiotica che le comunità umane hanno vissuto per millenni adattandosi alle differenti condizioni ambientali del globo e creando migliaia di culture e di linguaggi. La svalutazione della natura e degli esseri umani che ne fanno parte si è imposta con l’avvento del capitalismo che ha mercificato e sta ancora mercificando ciò che prima era semplicemente vivo, dato, abbondante e alla portata di tutti. Certo, non proprio di tutti, il patriarcato è molto più antico del capitalismo, risale all’arrivo in Europa dei Kurgan nel IV millennio a.C. secondo la Gimbutas o all’avvento della prima forma statale, l’impero Sumero, nel III millennio a. C. secondo Ocalan. In altri termini non sarebbe corretto affermare che prima dell’età moderna non ci siano stati la schiavitù, la sottomissione della donna, la violenza di stato e tutto ciò che essa comporta. Tra il ‘500 e il ‘600 però il patriarcato ha partorito il suo figlio più mostruoso ossia il capitalismo, grazie all’opera dei suoi precursori più fecondi, a partire da Descartes e Galileo. Se con il primo il corpo animale e la natura tutta diventano un mero meccanismo automatico e privo di pensiero (la vivisezione e l’anatomia cominciano dai suoi esperimenti sugli animali; in quanto privi di anima erano secondo il dotto incapaci di provare dolore), con il secondo la scienza si emancipò progressivamente dai limiti della terra che diventò così un immenso laboratorio nel quale ricreare condizioni ed elementi estranei alla sua natura.

“Furono necessarie molte generazioni e qualche secolo prima che il vero significato della rivoluzione copernicana venisse alla luce con la scoperta del punto di Archimede. Solo noi, e solo da qualche decennio, abbiamo iniziato a vivere in un mondo interamente determinato da una scienza e una tecnologia in cui la verità oggettiva e la competenza pratica sono derivate da leggi cosmiche e universali anziché terrestri e ‘naturali’, e dove la conoscenza acquisita scegliendo un punto di riferimento extraterrestre, è applicata alla natura terrestre e alla tecnica umana.” (V.A.). In altre parole è come se la terra fosse diventata la cavia di uno scienziato che agisce in un laboratorio che ormai ha i limiti dell’universo, uno scienziato che non ha più i piedi per terra perso com’è nell’infinito campo delle sue astrazioni.

Ma il punto di Archimede, questo punto di osservazione che si perde nell’universo, è solo una finzione che si svela nel momento in cui questo topo da laboratorio apre gli occhi e contemplando i risultati delle sue accidentali applicazioni sulla via della pura conoscenza si accorge che la sua volontà di sapere ha favorito la volontà di potenza dello stato a cui appartiene o a cui si è venduto e non certo il miglioramento della condizione umana.

Quanta beffarda ingenuità nelle parole di pentimento tardivo di alcuni di questi premi Nobel che si risvegliano all’etica dopo aver contribuito all’edificazione del disastro: “Se avessi saputo ciò che stavano per combinare avrei fatto il calzolaio.”, scriveva Einstein dopo le catastrofi atomiche della II guerra mondiale.

Gli appelli alla moderazione nell’uso degli strumenti da parte degli scienziati sono sempre rivolti ai politici ovviamente, sono sempre questi ultimi i colpevoli del cattivo uso degli strumenti e mai i loro inventori. La scienza non si pone limiti etici, è al di là del bene e del male, è neutrale, è sacra, è solo ricerca di verità sul mondo. Ma anche questa è una finzione se nella realtà dei fatti è la

sete di profitto che spinge e ha spinto gli scienziati-inventori a vendersi al miglior offerente attraverso i brevetti e non lo spirito di verità. Insomma, questi medici, ricercatori, studiosi, professionisti vari, sono veramente gli eroi disinteressati dipinti dalla favolistica mediatica, sono veramente dei missionari che si immolano sugli altari della scienza per il bene dell’umanità?

La scienza non è forse la nostra nuova religione, quella che ci salverà da noi stessi, dalle nostre innate imperfezioni che potranno essere finalmente rimosse attraverso la manipolazione genetica della vita, ossia dell’ “ultimo legame per cui l’uomo rientra ancora tra i figli della natura” (V.A.)?

La verità è che queste domande non si possono più porre nelle nostre società super tecnologiche, l’abbiamo già perso quell’ultimo legame dal momento che utilizzando il termine “natura” ci sentiamo di fare un torto a qualcuno, o pensiamo di passare per “essenzialisti” retrogadi, fascisti e omofobi.

“Bisogna quindi riconoscere che l’implementazione del Green Pass comporterà l’accelerazione dell’abbandono della tradizionale nozione ippocratica di salute come dono naturale ricevuto, e l’adesione alla nuova nozione psico-fisica di salute come costrutto sociale, in cui il “danno a terzi” è determinato dalle opportunità tecnico-scientifiche e non più dalla natura.” (CNB)

Dal momento che la natura è persa ci tocca vivere in un mondo completamente tecnico, dove la comunione è diventata comunicazione, dove la conoscenza è diventata informazione, dove il rispetto della differenza passa dai simboli di una tastiera, dove la comunità è diventata community, dove la cura è diventata terapia, dove l’apprendimento è diventato scolarizzazione perpetua, dove la libertà diventa diritto, dove la riproduzione è diventata un affare di bioingegneria, dove ogni aspetto della vita e della cultura è mediato dalla tecnica, dove il pensiero fatica a esprimersi nella confusione totale dei significati che si perdono sulla strada di una civiltà completamente artificiale.

“L’ambiente tecnico non potrebbe esistere se non si appoggiasse e ricavasse le proprie risorse da quello Naturale (Natura e Società). Ma mentre lo esaurisce e lo estenua, lo elimina in quanto ambiente e vi si sostituisce.”, (I.S.T.) afferma Ellul. L’ambiente naturale qui definito comprende tutti gli elementi naturali della terra, dal filo d’erba all’essere umano, uniti da quell’ultimo legame di cui sopra, la vita. Elementi che nelle mani delle varie scienze diventano semplici risorse, materiali di ricostruzione di un mondo tecnico che si estende dalle megaopere di viabilità supersonica ai vegetali geneticamente modificati, dagli impianti nucleari a quelli uterini, dalle reti informatiche all’allevamento intensivo, dall’agrochimica alla chimica farmaceutica, un mondo macchinizzato dove la prima macchina inventata dal capitale, quella umana, può adattarsi solo a costo di continue chirurgie.

In questo mondo ci possiamo vivere con inquietudine o entusiasmo, dipende dai punti di vista o dalle prese di posizione o dalla capacità personale di gestire i vari gradi di dissociazione o rimozione.

Fidarsi di una persona, che sia un medico, un insegnante o un prete non significa fidarsi delle istituzioni che pur li condizionano, la fiducia si dà o si costruisce nell’incontro e nella conoscenza di qualcuno, nell’ascolto e nella comprensione, nella possibilità di valutare le parole e gli atti di chi mi sta di fronte. Tenendo comunque presente che difficilmente troveremo medici, insegnanti o preti ribelli, poiché difficile è sputare nel piatto dove si mangia, ci sono troppi interessi in ballo. Eppure in questo periodo in tanti casi neanche il movente economico riesce a impedire la disobbedienza, anche se varie sono le ragioni della renitenza, i discorsi sulla libertà di cura si mischiano a disegni complottisti di vario genere.

Il dato è che comunque tante persone rispondono male alla coercizione medica imposta dal governo: sono tutti di Forza Nuova? Come mai gli anarchici, ossia quelli che sono contro ogni tipo di governo imposto dall’alto non si esprimono, men che meno nelle piazze? E gli antispecisti dove sono andati a finire, non lo sanno che gli studi sperimentali sui vaccini e su tutti gli altri farmaci uccidono milioni di animali ogni anno? E “il corpo è mio e me lo gestisco io” a che cosa si riferiva tanto tempo fa, care femministe, solo al vostro utero? Siamo proprio sicuri che un corpo in transizione sia l’espressione della sua libertà e non l’ennesima espropriazione? Non sarà che siamo troppo imbrigliati in questo sistema da non riuscire più a criticarlo e quindi anche a colpirlo?

La crisi è un’opportunità per riflettere, per rimettere in questione, per ragionare sulla realtà, e questa che stiamo vivendo è una crisi profonda che scuote, spacca, divide. È giunto il momento di scannarsi ma con i discorsi, non con gli slogan e gli insulti, fino in fondo.

Le citazioni sono tratte da questi testi:

(D.I) – Malattie vaccini e la storia dimenticata [Dissolving Illusions], S. Humphries e R. Bystrianyk, 2018

(N.M.) – Nemesi medica, I. Illich, 1977

(P.S.B.) – Per una storia dei bisogni, I. Illich, 1981

(I.G.C.) – Il grande Calibano, S. Federici e L. Fortunati, 1984

(I.P.T.) – I padroni della terra, rapporto sull’accaparramento della terra 2021: conseguenze su diritti umani, ambiente e migrazioni a cura di A. Stocchiero di FOCSIV

(L.S.C.) – La società dei consumi, J. Baudrillard, 1970

(V.A.) – Vita activa, H. Arendt, 2014

(I.S.T.) – Il sistema tecnico, J. Ellul, 2009

(C.N.B.) – Parere Comitato Nazionale di Bioetica n. P141 del 30 aprile 2021

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Originariamente pubblicato su: https://roundrobin.info/2021/09/riflessioni-a-partire-da-un-pugno-di-domande-alla-galassia-anarchica/

roundrobin@framasphere.org

Uscito l'opuscolo "Estrema (suss)unzione"

In questo opuscolo due testi:

Estrema (suss)unzione – ovvero l’ìimmunità del gregge, di Franco Cnatù, è tratto dall’ultimo catalogo di Nautilus (XXMilaLeghe n° 14, settembre 2021).

È l’ora delle medicine – contro la medicina moderna e l’industria che l’accompagna, di Anonimo franco-provenzale, è stato pubblicato in francese nell’estate 2020.

Entrambi i testi sono stati letti integralmente ne LA NAVE DEI FOLLI – bollettino radiofonico di critica radicale alla società cibernetica, negli Episodi 2.31 e 2.40 (prima dose) ≈ lanavedeifolli.noblogs.org

Edito da istrixistrix nel settembre 2021.

CANTÙ-ANONIMO-Estrema-sussunzione

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Originariamente pubblicato su: https://roundrobin.info/2021/09/uscito-lopuscolo-estrema-sussunzione/

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Capitalismo ed elettrificazione

Questo testo è un contributo per l’omonima discussione “Capitalismo ed elettrificazione”, tenutasi al Circolaccio Anarchico di Spoleto l’11 settembre all’interno dell’iniziativa “Parole al vetriolo”.

Capitalismo ed elettrificazione

Nella attuale organizzazione, in quanto monopolisti della scienza che restano come tali al di fuori della vita sociale, gli scienziati formano certamente una casta a parte che offre molte analogie con la casta dei preti. L’astrazione scientifica è il loro Dio, le individualità viventi e reali sono le vittime ed essi ne sono gli immolatori consacrati e patentati. M. A. Bakunin

Si fa presto a dire «ideologia»

La narrazione dominante da almeno trent’anni ce la mena con la «fine delle ideologie». Secondo i «pensatori» di corte, il crollo dei paesi a Capitalismo di Stato avrebbe inaugurato una nuova era, quella che il filosofo Francis Fukuyama (1992) chiama «fine della storia». La storia sarebbe dunque da intendersi come uno sviluppo lineare dove lo Stato democratico e liberale ne rappresenta il telos, il Fine ultimo dell’evoluzione oltre il quale è impossibile andare. Sono i principi del liberalismo a dettare l’evoluzione, contrassegnata e spinta dalla forza della razionalità.

Raggiunto questo stato di «perfezione» non hanno più senso nemmeno le ideologie. Lo scontro tra visioni del mondo contrapposte e alternative è irrazionale e improduttivo, la ragione tecnica decide ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, la sola cosa che noi possiamo fare è seguire la razionalità. Ogni deviazione sarebbe dunque assurda.

In maniera contraddittoria, Fukuyama ritiene che questo stadio finale dell’evoluzione umana è lo Stato democratico. Quello che non è riuscito a prevedere è che, proprio in virtù del dominio razionale della tecnica, la stessa costituzione democratica sarebbe diventata presto obsoleta. Se non c’è niente da scegliere, se la cosa migliore da fare è la più razionale… Un altro mondo è impossibile!

Si tratta di un’idea forte di immobilità. Non solo è diventato sintomo di un’imminente crisi psicotica pensare di poter rovesciare lo Stato, di prendere il potere politico (figuriamoci di distruggerlo!), ma è diventata intoccabile, fin nei minimi dettagli, anche la rotta: non solo il capitalismo diventava l’unico mondo possibile, ma, al suo interno, la sola variante neoliberista era la sola forma economica necessaria negli anni a cavallo tra i due millenni. Da qui ne discende la ridondanza del regime democratico. Esso si è dimostrato sempre più un teatro delle ombre, la cui regia però è una copia, un duplicato dell’ideologia unica.

Bisogna segnatamente distinguere tra «ideologie» al plurale e «ideologia» al singolare. Quello che è capitato negli ultimi anni non è stata affatto la fine dell’ideologia, ma la fine delle ideologie. L’ideologia è più forte che mai: essa è diventata pensiero-unico. D’altronde l’affermazione «sono morte le ideologie» è, essa stessa, un’affermazione ideologica. La tesi sulla fine delle ideologie è la tesi eminentemente ideologica. È una tesi che, chiudendo il dibattito e dichiarata sconfitta ogni possibile confutazione, fonda sé stessa come l’ideologia necessaria: talmente necessaria da non doversi nemmeno dichiarare tale, non doversi nemmeno fregiare del termine – è intangibile, come lo Spirito Santo. Se le chiedi «cosa sei?» essa ti risponde come Dio con Mosé: «Ego sum qui sum».

Le ideologie hanno un senso solo se si pensano come risolutamente contrapposte, l’una contro l’altra armate. In questo senso è, da un certo punto di vista, corretto dire che le ideologie sono finite. L’ideologia dominante è dunque una paradossale, mostruosa, Super-Anti-Ideologia. Oggi, la mossa più radicale, quella veramente rivoluzionaria sul piano teorico, è la denuncia della natura ideologica mistificata del pensiero tecnico. Ma affermare che quella che ci comanda è pur sempre un’ideologia, anzi è la più radicale e per questo mistificata, non è ancora sufficiente. Quello che dobbiamo fare nei confronti di questa nuova religione, piuttosto, è: non crederle.

Qui cominciano le difficoltà per il movimento anarchico. L’anarchismo rivoluzionario del nuovo millennio ha avuto il merito storico incalcolabile di essersi posto come la sola vera negazione (quanto meno in Occidente) della nuova ideologia dominante. Svincolato dal mito scientista che permea il marxismo, non essendo per altro tramortito dal crollo del Muro di Berlino, l’anarchismo poteva essere, e per molti aspetti lo è stato, la forza rivoluzionaria del secolo. Proviamo solo a pensare: cosa sarebbe stato il movimento no-global senza l’anarchismo, cosa sarebbe stata la crisi greca senza l’anarchismo, cosa sarebbe stata la lotta contro la catastrofe ambientale senza l’ecologismo radicale per buona parte anarchico, cosa sarebbe stata la nostra epoca senza quella sterminata serie di attacchi contro i politici, gli economisti, gli scienziati portati avanti dagli anarchici?

Se da un lato, dunque, l’anarchismo non ha naturalmente trovato difficoltà a impostarsi spontaneamente come la negazione dell’ideologia dominante; dall’altro lato, come vedremo meglio, delle componenti del movimento hanno espresso un limite sostanziale: hanno creduto ad alcune tesi dell’ideologia dominante. Talvolta, pur rovesciandone il giudizio di valore, tendiamo eccessivamente a credere a tutte le balle che ci propinano gli ideologi di Stato. L’ideologia dominante afferma di poter sottomettere e controllare ogni angolo del mondo con la tecnica? Allora le crediamo e parliamo di resistenza ad una «megamacchina» avente contorni totalitari, apparentemente quasi invincibile. L’ideologia dominante afferma che la lotta di classe è finita? Allora le crediamo e parliamo di nuove oppressioni, di una molteplicità indistinta di privilegi. La nostra azione è sicuramente sempre stata in buona fede (qui ovviamente ci interessa parlare solo dei compagni in buona fede), il nostro agire è sempre stato volto ad attaccare la megamacchina e il privilegio. Ma dal momento in cui, pur rovesciandone i valori, tendiamo a credere a delle tesi dell’ideologia dominante, la nostra analisi resta comunque viziata da un’orizzonte ermeneutico che è quello scelto dallo Stato.

La variante afghana

Ma le cose stanno davvero così? La storia è davvero finita? Le ideologie sono davvero morte?

Proprio mentre ci incontriamo corre l’anniversario dell’11 settembre. Nemmeno dieci anni dopo dall’uscita di Fukuyama la storia tornava ad affacciarsi prepotente. Il seguito è noto. L’amministrazione Bush dichiara guerra ai talebani e invade l’Afghanistan. Due anni dopo, sarà la volta dell’Iraq. A distanza di venti anni possiamo vedere come sono andate a finire le cose. L’Iraq è, ormai da molto tempo, di fatto, uno Stato controllato da governi filo-iraniani, i peggiori nemici degli americani. In Afghanistan dopo venti anni di dissanguamento, economico e letterale, gli statunitensi sono infine costretti a ritirarsi e i talebani hanno di nuovo conquistato il Paese. Una sconfitta che all’Occidente ricorda il Vietnam, con americani e alleati (compresi gli italiani) costretti a scappare dalle ambasciate in elicottero!

L’esercito più potente e armato del mondo è stato sconfitto da una guerriglia di pecorari armati solo di un mito. Gli stessi pastori che quaranta anni fa hanno distrutto l’Armata Rossa. L’esercito più sgangherato del pianeta che nel giro di mezzo secolo sconfigge le due superpotenze mondiali. Certo gli economicisti più irriducibili troveranno una molteplicità di sostenitori che hanno affiancato i talebani negli ultimi anni in nome dei più ignobili interessi economici. Sicuramente non sono forze che possono competere con gli Stati Uniti, la Russia e la Cina insieme, tutti terrorizzati, per ragioni differenti, dall’espansione islamica nell’Asia centrale.

La verità è che i talebani hanno sconfitto la NATO e prima ancora l’Armata Rossa perché non hanno paura di morire. Hanno un Dio e una pratica religiosa premoderna in nome della quale credono assurdamente che gli spetterà il paradiso quanti più nemici riusciranno a fare fuori. Il mito, i martiri, gli eroi, contro dei placidi occidentali superpagati, desiderosi di ammazzare un po’ di selvaggi e di tornare a casa col conto corrente pieno delle laute paghe di mercenari. Il mito di Allah contro il mito di Messi e Michael Jordan. Chi altri poteva vincere? Una riscossa del mito che nel giro di quattro decenni ha sconfitto le due principali ideologie della modernità.

Questo cosa ha a che fare col nostro discorso? Moltissimo.

L’ideologia dominante (che afferma di non essere tale) si ritiene invincibile. Predica la razionalità tecnica come forma insuperata e insuperabile dell’evoluzione storica. L’opposizione a questo Moloch, come accennavamo, talvolta ne ha accettato i contenuti, pur rovesciandone il valore. Ma non solo noi anarchici dobbiamo opporci all’ideologia dominante, noi non dobbiamo crederle.

L’ideologia dominante afferma il superamento dell’essere umano e dei suoi limiti a favore delle macchine. Accade che i suoi oppositori le credano fermamente, pur dichiarandosi disgustati. La fede verso questo destino è talmente forte, che finisce per imbrogliare gli stessi imbonitori. L’ideologia, non avendo opposizione, finisce per imbrogliare se stessa. La variante afghana non ci parla forse anche del fallimento di questa distopia? Puoi bombardare i villaggi con i droni per vent’anni, ma poi servono umani per controllare il territorio. Altro che tecnologie avanzate, altro che cyborg da usare in guerra! Senza scarponi calzati da piedi umani non controlli il territorio, quando i droni tornano al nido dopo i loro voli di morte, gli umani riprendono il controllo.

Pensiamo a quanti dicono che a causa della pandemia si sarebbe instaurata una specie di «dittatura sanitaria» da parte di Big Pharma. Forse costoro dovrebbero fare due conti con la «variante afghana» più che con la variante inglese o la variante indiana. Non pensate che sia un duro colpo per Big Pharma aver perso il più grande fornitore di oppio del pianeta? Il punto ovviamente non è smettere di combattere Big Pharma, mettersi al servizio della sinistra vaccinista e del generale Figliuolo. Il punto è sempre quello di non credere alle loro tesi ideologiche, non credere che il loro sia il solo destino possibile. La loro scienza non è la sola scienza possibile, il dominio della razionalità tecnica al servizio del capitalismo non è un destino teleologicamente necessario.

D’altro canto non è stato proprio il generale Figliuolo alla guida della missione di guerra in Afghanistan per conto delle truppe italiane di occupazione? Ecco, la cosiddetta «campagna militar-vaccinale» è in mano al generale che, insieme ad altri, ha perso l’Afghanistan. I generali al potere? Sì ma quali generali? Figliuolo è un perdente!

La «variante afghana» ci porta ad un altro pensiero, ben più perturbante: la modernità come parentesi. E se gli eserciti di occupazione degli Stati capitalisti del pianeta un bel giorno «ritirassero le truppe»? E se quel giorno non dovesse sorgere il Sol dell’Avvenire, ma la reazione medievale, l’oscurantismo religioso, la barbarie umana, l’oppressione delle donne? Deve essere stato questo pensiero, tanto perturbante da venire nascosto nell’inconscio più profondo, a spingere tanti ex compagni su un terreno ormai squisitamente riformista. Di fronte al crollo, tanti potrebbero dimostrarsi non così tanto rivoluzionari. La paura della morte o di qualcosa di molto peggiore potrebbe spingere in molti a dirsi che sì, in fondo, il nostro governo non è poi così male. Una certa opposizione al fascismo, una certa retorica socialdemocratica di difesa dei deboli, una certa visione neoliberale sul ruolo delle minoranze in fondo non ci parla anche di questo?

Cosa dobbiamo fare noi? Sposare l’oscurantismo? Gridare che «Allah è grande» o andare in piazza coi complottisti? No, noi dobbiamo contrapporre il nostro mito ai loro dei della guerra. Noi dobbiamo contrapporre alle divinità della tecnica e della reazione quello che Alfredo Cospito chiama «il mito dell’anarchia vendicatrice». L’Idea che i signori ricchi che ci hanno ridotto in queste condizioni un bel giorno la pagheranno. E non sarà per una qualche miracolosa assistenza divina, la possibilità di fare giustizia è solo nelle nostre mani!

Dal «totalitarismo tecnologico» alla crisi dei chip

Un altro modo con cui ci si sta opponendo all’ideologia dominante della nostra epoca è quello che denuncia il pericolo di un imminente totalitarismo tecnologico. Questi compagni, di nuovo, nell’opporsi giustamente alle tendenze in atto, finiscono però per accettarne le credenze. L’idea che lo sviluppo tecnico non avrà limiti e conquisterà l’intero pianeta è solo un’ennesima chimera ideologica. Noi non solo siamo contro i progetti di ristrutturazione del capitalismo, siamo anche scettici nei confronti delle balle che ci raccontano i suoi corifei.

Il 17 giungo scorso i giornali economici hanno diffuso una notizia sconcertante, ben celata dai media di massa. Questo il lancio d’agenzia di LaPresse:

«Milano, 17 giu. (LaPresse) – Audi e Volvo fermeranno i propri stabilimenti di Bruxelles e Gent in Belgio questa settimana a causa della carenza di microchip. È quanto riferiscono diversi media locali tra cui The Brussels Times. La carenza di chip ha ritardato la produzione di circa mezzo milione di veicoli in tutto il mondo, secondo l’Associazione europea dei fornitori automobilistici (Clepa), e si prevede che i suoi effetti si faranno sentire fino al 2022. Non è la prima volta che entrambi gli stabilimenti hanno dovuto interrompere la produzione a causa della carenza di microchip, che possono essere presenti a dozzine nei modelli di auto più recenti. “Il secondo trimestre del 2021 è stato molto difficile e stiamo ancora assistendo a ritardi nella produzione”, ha affermato il presidente di Clepa Thorsten Muschal. Audi ha spiegato che l’offerta di chip rimarrà limitata nei prossimi mesi – e che quindi non è possibile escludere ulteriori aggiustamenti alla produzione –, anche se ci si aspetta che la situazione migliori. “Sembra che il punto più basso della crisi sia stato raggiunto”, ha detto il portavoce dello stabilimento Peter D’Hoore. “Ci aspettiamo un miglioramento nella seconda metà dell’anno”, ha proseguito».

Ma come, volete fare la rivoluzione digitale e non avete i chip per le auto?!

Gli effetti della crisi dei chip si sentiranno fino al 2022, dicono. Al momento del lancio d’agenzia (giugno ’21), si parlava di mezzo milione di veicoli non prodotti a causa della carenza di materie prime. Si confidava però che «il punto più basso della crisi» fosse stato raggiunto. La crisi dei chip, al contrario, sta continuando ad espandersi, colpendo tutti i settori tecnologici e non solo quelli. Pubblichiamo ampi stralci di un articolo de Il Sole 24 Ore che potete leggere integralmente a questo link: https://www.ilsole24ore.com/art/dal-caffe-playstation-cosi-crisi-materie-primesconvolge-prezzi-e-forniture-AE9KJwR.

Dopo Audi e Volvo è stata la volta di Tesla, l’auto elettrica di Elon Musk a doversi fermare per mancanza di litio e cobalto:

«Problemi anche per Tesla, il titano dell’auto elettrica di Elon Musk. Prezzi in aumento per la carenza di materie prime. Proprio il Ceo ha spiegato la situazione in un tweet: «I prezzi sono in aumento a causa della pressione dei costi della catena di approvvigionamento in tutta l’industria. Soprattutto delle materie prime». In questo caso entrano in gioco i prezzi di materie prime come litio e cobalto, entrambe in grande crescita (secondo l’International Energy Agency (IEA), la domanda di minerali per veicoli elettrici e batteria crescerà almeno di 30 volte entro il 2040)».

Problemi che, com’è inevitabile, riguardano ovviamente anche gli elettrodomestici:

«Non va meglio nel settore degli elettrodomestici. Secondo il presidente di Whirlpool in Cina, la stessa carenza globale di materie prime (chip in particolar modo) che ha scosso le linee di produzione delle case automobilistiche, ora si sta abbattendo sui produttori di elettrodomestici, incapaci di soddisfare la domanda. Proprio Whirlpool, una delle più grandi società di elettrodomestici al mondo, si è vista ridurre le consegne di chip del 10% rispetto ai suoi ordini, nel mese di marzo. Hangzhou Robam Appliances Co Ltd, un produttore cinese di elettrodomestici con oltre 26mila dipendenti, ha dovuto ritardare di quattro mesi il rilascio di una nuova ventola per stufe di fascia alta perché non poteva procurarsi un numero sufficiente di chip».

E i videogiochi: «Purtroppo riscontriamo una grande scarsità di semiconduttori e altri componenti». Sono le parole del Chief Financial Officer di Sony, Hiroki Totoki, a proposito di Play Station 5. Quello che invece non ci si sarebbe aspettati è che la crisi dei chip mettesse in seria difficoltà anche altri settori, come l’edilizia, il caffè e perfino la carta igienica!

«Sembra assolutamente assurdo, ma uno dei settori messi in crisi dal caos sulle materie prime è quello della carta igienica. La Suzano SA, il più grande produttore di pasta di legno – la materia prima per prodotti inclusa la carta igienica – ha fatto sapere che le difficoltà logistiche innescate dalla crisi delle materie prime (container richiesti da altri settori, trasporti in bilico, ecc.) potrebbe creare problemi di approvvigionamento».

Da ultimo, proprio in questi primi giorni di settembre, la crisi dei chip comincia timidamente a bucare i notiziari nazionali, che tentano comunque di limitarla alle pagine interne di economia: Stellantis (cioè la vecchia FIAT) sta scrivendo in queste ore agli operai per annunciare il prolungamento delle ferie di ferragosto per buona parte di settembre in diversi stabilimenti che producono Panda e Fiorino, a causa della ormai cronica carenza di semiconduttori.

In un mondo elettrificato, la crisi dell’elettrificazione è una crisi generale. Non solo perché ormai la robotizzazione riguarda tutti i settori, ma anche perché, parlando in termini strettamente materiali, la crisi dei chip è una crisi dell’estrattivismo: mancano i minerali per i computer, ma cominciano anche a mancare gli alberi per la carta!

La crisi dei chip naturalmente non è una crisi estemporanea, ma un segno profondo dei tempi. Da un lato, la sempre maggiore richiesta di conduttori, semiconduttori e superconduttori, dall’altra l’incapacità delle miniere africane di stare al passo di questa sempre maggiore domanda di materie prime.

Il risultato di questo scompenso tra la domanda di metalli conduttori e la debolezza dell’offerta prevedibilmente avrà delle importanti conseguenze non solo sui volumi delle produzioni, ma anche sui costi. La grande forza della digitalizzazione è stata la progressiva deflazione dei suoi manufatti. Computer, cellulari, dispositivi di varia natura per molti anni sono costati sempre di meno, rendendoli un bene disponibili per tutti – anche per chi non riesce a mangiare o a pagare l’affitto. Un aumento del prezzo di questi dispositivi avrà certamente anche un riflesso sulla velocità di propagazione della loro diffusione planetaria. Ma la natura finita del pianeta, vale anche per le materie prime di cui sono fatti smartphone e PC, ci parla di limiti oggettivi dell’espansione tecnologica.

Non vogliamo con questo diffondere la facile illusione su un esaurirsi spontaneo delle risorse utili alla svolta tecnologica autoritaria. In passato ci si è fin troppo facilmente illusi sulla fine del petrolio, salvo poi, grazie proprio alle nuove tecnologie estrattive, trovare nuovi giacimenti in profondità e il modo di poterli raggiungere. Il capitalismo non si spegnerà spontaneamente, per assenza di carburante, siamo noi che dobbiamo farlo saltare!

Il capitalismo trova sempre nuove aree da sfruttare e nuove tecniche per farlo. La diffusione di miniere alla ricerca di metalli come il coltan fuori dal Congo si inseriscono i questi tentativi. Il punto è di non credere alla fama di imbattibilità della macchina capitalista. Queste ricerche producono anche lotte di resistenza, nonché una manodopera sicuramente più dispendiosa degli schiavi che vengono usati in Africa. Di nuovo, quindi, un aumento dei prezzi e una disponibilità sempre più escludente delle applicazioni tecnologiche.

Quello che ipotizziamo non è dunque un totalitarismo tecnologico, ma una condizione di specificità tecnologica in un contesto di arretramento generale. Ci saranno delle «cittadelle» (il termine non è da intendere alla lettera) iper-sviluppate, fuori dalle quali abbonderà la gran massa dell’umanità, sempre più esclusa dai poli del benessere. Un’immagine che non va resa «geograficamente», come una volta si immaginava il terzo mondo. Questa dinamica escludente attraverserà verticalmente tutte le società. In questo contesto, l’immagine dell’operaio con il chip nella tuta che ne spia tutti i movimenti sul lavoro si affiancherà allo stesso che, una volta tornato a casa, vivrà sempre più in una condizione di barbarie culturale – finanche con problemi di approvvigionamento di caffè e carta igienica. La rivoluzione tecnologica continuerà a poggiare le sue basi sullo sfruttamento degli umani. Così sarà fino a quando ci sarà il capitalismo. La carne umana resta la vera miniera d’oro per gli sfruttatori. Le nuove tecnologie serviranno, semmai, a controllarla meglio.

Si scrive «green new deal» e si legge «licenziamenti»

Se nel mercato informatico ancora i prezzi di questa crisi dei chip non sono visibili, così non è per le cosiddette auto elettriche. Per l’acquisto di un’auto elettrica con prestazioni «decenti» – non parliamo dei trabiccoli che vanno a 50 km orari – bisogna sborsare almeno 18 mila euro e questo solo grazie ai contributi pubblici, altrimenti il conto sarebbe più salato di ulteriori 3-4 mila. Non è un caso se la macchina più diffusa in Italia continua ad essere la Panda, che ne costa meno di 10 mila. Insomma, la «rivoluzione verde» rimane un privilegio di classe.

Non è un caso se gretini ed ecologisti di regime non fanno che ripeterci che, insieme all’auto elettrica, deve cambiare il nostro stile di vita negli spostamenti. Con l’auto elettrica ci si muoverà soprattuto col car sharing. «Il futuro? Elettrico, ma connesso e condiviso» scrive per esempio Diego Colombo sull’Eco di Bergamo. Il motivo? Semplice: non tutti se la potranno permettere!

Questo è un esempio di ciò che definiamo «cittadelle» della civiltà tecnologica circondate dalla miseria. Anche la macchina, segno distintivo della società dei consumi degli anni Sessanta, diventa un privilegio per pochi.

Naturalmente qui il punto non è ambientale, poiché tutto dipende da con che cosa viene prodotta l’elettricità. Se l’elettricità viene prodotta col carbone, è evidente le auto elettriche provocheranno nel pianeta molte più emissioni di CO2 di quelle tradizionali, a benzina. Già, ma questo avverrà «fuori», nelle regioni in cui ci sono le centrali a carbone. Possiamo saggiare ancora una volta la dinamica non totalitaria, bensì a «cittadella» del prossimo regime tecno-capitalista: il centro storico avrà meno smog madama la marchesa!

E naturalmente, tutta questa smania di elettrificazione non farà che alimentare le pulsioni nucleariste degli scienziati della morte.

Dunque il punto non è quello di salvare l’ambiente, come ci raccontano gli ideologi di corte. Il punto è una ristrutturazione globale della società, con una più ristretta fortezza di inclusione e una più ampia massa umana di diseredati. L’impoverimento delle magnifiche quanto metafisiche «classi medie», ci parla di questo processo complessivo. Questo impoverimento si ricollega alla «variante afghana» in senso lato, alle pulsioni reazionarie di tanti padroncini impoveriti.

Questo impoverimento è una conseguenza necessaria, voluta del nuovo corso. Sempre rimanendo in tema di elettrificazione automobilistica, si stima che tra il 30 e il 60% dei posti di lavoro sono in pericolo nel settore dell’automotive a causa del cambio di produzione dal motore a scoppio a quello elettrico. La transizione ecologica fa rima con la transizione digitale, non a caso il Governo Draghi – regime di Unità Nazionale in nome della ristrutturazione capitalista – si è inventato il Ministro della transizione ecologica e reinventato il Ministro per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale. E come rivendica mefistofelicamente il neo ministro alla transizione ecologica, Roberto Cingolani, la transizione avrà un costo sociale enorme. I cingolati di Cingolani marciano facendo il verso a quelli di Stalin: capitalismo ed elettrificazione sventolano sulle insegne delle nuove purghe.

Mai fu tanto vero il detto: avete voluto la bicicletta, adesso pedalate.

L’Unità Nazionale da Cremaschi a Bonomi

Perché questo progetto vada avanti, perché questa enorme ristrutturazione autodenominatasi Grande Reset possa realizzarsi serve dunque un impoverimento di massa in tutto l’Occidente. Questo passa, lo abbiamo visto, dalla perdita di milioni di posti di lavoro a causa della digitalizzazione e della robotica. L’elettrificazione chiede carne umana!

Il governo italiano ci ha pensato con lo sblocco dei licenziamenti, il vero provvedimento per il quale venne messa in moto l’operazione-Renzi per disarcionare il precedente governo e instaurare il gabinetto di Mario Draghi. Ora che non ci sono più i divieti ai licenziamenti, ogni pretesto è buono per chiudere. E la pandemia mondiale di pretesti ne fornisce a iosa.

È il 20 luglio quando Giorgio Cremaschi, leader storico della FIOM, il fu potente sindacato dei metalmeccanici della CGIL e esponente del partitino «centrosocialista» Potere al Popolo!, nel linguaggio sgrammaticato di Twitter, cinguetta:

«Chi si oppone al #green pass dovrebbe coerentemente opporsi a: patente di guida tessera sanitaria carta d’identità certificato di residenza ogni simile diavoleria della dittatura comunista. Svalvolati certo, ma anche semplicemente #fascisti allo stato brado».

Lo stesso giorno Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, scrive una lettera decisamente meno illitterata al Presidente del Consiglio Mario Draghi, svelata dal quotidiano Il Tempo:

«[Titolo: Non fai il vaccino? Niente paga. La minaccia di Confindustria ai lavoratori]. Al fine di tutelare tutti i lavoratori e lo svolgimento dei processi produttivi nel pieno rispetto delle libertà individuali, Confindustria ha proposto l’estensione dell’utilizzo delle certificazioni verdi – cd. green pass – per accedere ai contesti aziendali/lavoristici».

Non bisogna essere dei cospirazionisti per osservare che la coincidenza delle date è quanto meno inquietante. Ma anche ammesso che quello di Cremaschi sia stato «solo» un imperdonabile errore e il sintomo di una sinistra geriatrica da rinchiudere in una casa di riposo più che in un centro sociale, una coincidenza del genere, per quanto «sfortunata», ha dato il senso di un accerchiamento mediatico per la svolta securitaria che di lì a pochi giorni sarebbe intervenuta.

Bisogna prestare molta attenzione alla sostanza che il verbo tocca quando si usa la dizione «governo di Unità Nazionale». L’Unità Nazionale non è un semplice governo tecnico, né un mero governo politico di «larghe intese». L’Unità Nazionale è un governo nel quale la Nazione è unita e mobilitata per un fine emergenziale supremo. Da un punto di vista parlamentare, non c’è una differenza con le cosiddette larghe intese: tanti partiti che votano insieme un governo politico. Ma l’Unità Nazionale è qualcosa di diverso. L’alleanza di governo attraversa l’intera società, le forze sociali, gli intellettuali, la gente comune: tutti sono mobilitati per la Patria.

Da questo punto di vista le uscite concentriche di Cremaschi e Confindustria ci parlano di una sostanziale unità, di un vero fronte patriottico per salvare la borghesia dalla crisi provocata dal Coronavirus. È un vero governo borghese di massa, che, a differenza del fascismo, mantiene la pluralità dei partiti e li mobilita tutti nella guerra patriottica. Cremaschi, oppositore fittizio, con quelle dichiarazioni si inscrive a tutti gli effetti nella compagine dell’Unità Nazionale, si dichiara mobilitato per le sue scelte di macelleria sociale.

Il Covid-19 è un sintomo. Sì, ma di che cosa?

Non abbiamo mai dato alla pandemia un ruolo centrale nelle nostre analisi. Non perché quanto accaduto non sia stato, sotto ogni punto di vista, eminentemente storico. Riteniamo però che il Covid-19 non sia stato un evento imprevisto, un meteorite che ha colpito il pianeta cambiandone per sempre la rotta. Crediamo semmai che il Coronavirus sia in qualche modo una sorta di espressione dello spirito dei tempi che corrono.

Già, ma dove vanno, se corrono?

Il Covid-19, rimanendo nella metafora clinica, è solo un sintomo. Si, ma di che cosa?

Indubbiamente è un sintomo dello stato di salute del pianeta. È un sintomo, inoltre, di come funziona la scienza moderna: crea la malattia e poi vende il rimedio. È un sintomo di cosa possono provocare la continua urbanizzazione, gli allevamenti intensivi, la selezione biologica «naturale» attraverso vaccini e antibiotici. Ma anche qualora si trattasse di un complotto, di un’oscura manovra dietrologica, si tratterebbe nondimeno di un sintomo: il sintomo del livello raggiunto dagli apparati militari, dell’incoscienza psicotica dei grandi finanzieri, ecc. E qualora si trattasse – ipotesi intermedia – del risultato di una fuga accidentale da un laboratorio di ricerca (nelle due varianti: a) laboratorio militare; b) laboratorio medico che studia i virus per il «bene» dell’umanità), di nuovo esso sarebbe solo un sintomo: un sintomo della pericolosità sociale della scienza capitalistica, che corre, autonoma e senza freni, mettendo in pericolo tutti noi.

Insomma sintomo è e sintomo rimane. Per questo bisogna rinunciare alla tentazione di seguire il Covid e le sue danze con la lente deformante della ragion tecnica. Sarebbe, al solito, scegliere il campo di battaglia e le armi imposte dal nemico. Dobbiamo guardare oltre, al vero male: il vero male è un’organizzazione sociale mondiale fortemente diseguale, che sta depredando ogni ambiente, che è protetta da un apparato militare senza precedenti nella storia dell’umanità.

In quanto spirito dei tempi, il Coronavirus non ha invertito le tendenze fondamentali della nostra epoca, le ha semplicemente accelerate. La crisi della globalizzazione era già prevedibile da prima dell’emergenza sanitaria. Alcuni di noi, tra l’altro con strumenti analitici e dati empirici molto poveri, l’avevano già prevista da qualche anno. Così come avevamo previsto che si andava verso una svolta autoritaria di nuovo tipo. La pandemia è stata il veicolo nel quale questi fenomeni si sono, infine, espressi. La pandemia è il veicolo della crisi della globalizzazione e della svolta autoritaria di nuova forma, ma queste non sono delle passeggere, sono al posto di guida.

Da questo punto di vista noi giudichiamo i dispositivi autoritari come il recente passaporto sanitario, il cosiddetto green pass. Non siamo interessati strettamente al tema dei vaccini, alla discussione tecnica, al dibattito scientifico che sostituisce il dibattito politico. Tra gli autori di queste note ci sono, indifferentemente, vaccinati e non. Una divisione che fa il gioco del potere, dove lo Stato ha accelerato deliberatamente in questa direzione per creare ulteriore frammentazione degli sfruttati e isolamento delle loro «teste calde». Il green pass colpisce in primo luogo la libertà e la riservatezza di chi lo ha: controllato quando sale sul treno, quando va al cinema o in università, è il possessore del green pass a venire soprattutto spiato.

L’obiettivo, come osservato in apertura, è un obbiettivo ideologico: la creazione di una società dove divenga ontologicamente impossibile l’orizzonte della sovversione. In questo quadro, l’ideologia della tecnica, impersonale e imparziale come si vuol dipingere, diventa la sola ideologia tollerata. Se la tecnica dice che dobbiamo essere tutti spiati, che è la sola soluzione razionale per i problemi sanitari… ebbene, tutti dobbiamo essere spiati. Il decisore è logico e impersonale: un altro mondo è impossibile – e a vent’anni esatti da Genova, il 20 luglio Cremaschi e Confindustria marciano insieme.

Svolta autoritaria, ma di che tipo?

È stato adoperato sulle colonne di “Vetriolo” il lemma «svolta autoritaria di nuovo tipo» o «svolta autoritaria di nuova forma» per descrivere quanto sarebbe accaduto. Si trattava in primo luogo di una definizione negativa, senza contenuto. Ci si è limitati a osservare che la nuova società autoritaria non avrebbe avuto i connotati del fascismo storico novecentesco. Era importante sottolineare questo fatto onde evitare i pericoli del cosiddetto frontismo: l’unità antifascista in nome della democrazia.

Quando abbiamo cominciato a ragionare su queste categorie, da noi come in buona parte del mondo, stavano crescendo i partiti di estrema destra e i cosiddetti sovranisti. Temevamo quello che in effetti si è verificato: che l’allarmismo antifascista avrebbe contribuito a frenare questa ondata di destra, sì, ma al fine di restaurare l’ordine neo-liberale mondiale. Così è stato in Italia col governo Draghi e negli USA con la «sconfitta» di Trump. Ottenuto il risultato di restaurare il liberismo, questi stessi movimenti si sono sgonfiati, fino quasi a scomparire. È l’eterno ritorno del ciclo fascismo-antifascismo-liberalismo nel quale, per l’ennesima volta, i movimenti sono rimpasti impantanati.

All’epoca quindi, la sola cosa che potevamo fare era mettere in guardia contro l’uso che il potere avrebbe fatto dell’antifascismo, tentando di spiegare che la svolta autoritaria che stava arrivando non era il mero ritorno di un regime totalitario, ma qualcosa di molto differente. Non potevamo dare maggiori informazioni circa i contenuti giacché non siamo dei profeti. I contenuti ce li avrebbe mostrati la realtà. Oggi possiamo dire qualcosa di più. Possiamo dare della sostanza alla svolta autoritaria di nuova forma.

La prima evidenza è che tale svolta autoritaria si è prodotta nella sostanziale conservazione dell’ordine costituzionale liberale. Qualcuno potrebbe obbiettare che in Italia nemmeno il fascismo ha sospeso lo Statuto Albertino. Questo è vero, ma non si può non vedere che la vecchia costituzione monarchica italiana era molto vaga e non prevedeva, per esempio, garanzie verso i partiti e i sindacati. Il fascismo sospese la pluralità partitica e le libertà sindacali, operando una svolta costituzionale nella sostanza dell’ordinamento politico. Le attuali costituzioni europee sono molto più prescrittive circa i diritti e i doveri. La svolta autoritaria di nuova forma, questo è di estrema importanza, non ne sta modificando i connotati. Anzi se ne sta proprio disinteressando. Per i riformisti, per i sinistrati in servizio permanente effettivo in difesa della Costituzione, hanno rappresentato maggiori pericoli i tentativi riformatori di Berlusconi e Renzi. In pieno stato di emergenza, a nessuno è venuto in mente di modificare in senso autoritario le costituzioni occidentali.

Insomma la svolta autoritaria in corso, nel mentre chiude gli individui in casa, investe gli operai in sciopero, massacra i carcerati in rivolta, chiede il passaporto sanitario e istituisce checkpoint a ogni angolo della strada, fa piovere provvedimenti restrittivi per anarchici e refrattari, non sta affatto intervenendo sull’involucro istituzionale.

Questo fatto potrebbe sembrare sorprendente soltanto da un punto di vista superficiale. In realtà esso è strettamente correlato con la particolare natura ideologica, mistificata, del pensiero unico della ragion tecnica. Se c’è una sola scelta obbligata, se le questioni sociali, etiche, ecologiche hanno una sola risposta e se tale riposta viene individuata dalla dinamica impersonale del problem solving, le democrazie non rappresentano alcun pericolo per il nuovo autoritarismo. Chiunque salirà al potere dovrà adottare necessariamente le stesse politiche, dato che solo una è la soluzione ed è obbligata.

Annunciazione di sangue

La svolta autoritaria è realtà. Siamo in una nuova epoca storica dunque, la quale, come ogni rivelazione che si rispetti, ha bisogno di una Annunciazione, di una simbologia radicale, di una passione di sangue. In Italia questa «annunciazione» si è incarnata nel massacro nelle carceri del marzo 2020. Sedici morti sui quali troppo frettolosamente si è steso il velo della dimenticanza.

Una reazione radicale in primo luogo. Di fronte all’inaudita rivolta nelle carceri italiane, uno Stato sbandato dall’irruzione della pandemia ha reagito come ha potuto, come ha saputo: col pugno di ferro. Un messaggio per quei rivoltosi, certo, ma anche un messaggio per tutta la società: questo è quello che spetta a chi si ribella, a chi si rivolta. Lo Stato c’è. Queste le parole dell’allora ministro dell’Amministrazione Carne Umana:

«Mi piace sottolineare che in tutti i casi più gravi le istituzioni si sono dimostrate compatte: magistrati, prefetti, questori e tutte le forze dell’ordine sono intervenute senza esitare rendendo ancora più determinato il volto dello Stato di fronte agli atti delinquenziali che si stavano consumando».

Parole pronunciate da un ministro della «giustizia», davanti a un Parlamento consenziente. Una responsabilità politica e storica inequivocabile: noi, colleghi parlamentari, insieme a «magistrati, prefetti, questori e tutte le forze dell’ordine», siamo i responsabili del massacro. Nella mattanza di marzo si annunciano gli anni Venti del nostro secolo. Sentimento surreale, quando si è nelle condizioni di dover quasi ringraziare il boia in Bonafede per avercelo finalmente indicato senza veli, per quello che è, «il volto dello Stato».

Questa è la natura dello scontro che ci troveremo a fronteggiare. Siamo tutti avvisati, chi non se la sente è forse il caso che faccia adesso un passo indietro. Persino le immagini delle torture di Santa Maria Capua Vetere assumono un valore comunicativo importante nel messaggio terroristico del potere. Abbiamo imparato in questo squarcio di secolo come il potere, sapientemente, fa uscire gli scandali sulle torture: Guantanamo, Abu Graib, sono luoghi di tortura isolati dal mondo, se abbiamo saputo qualcosa su quello che è successo è perché l’ideologia ha voluto mostrarcele. Un monito, un brivido di terrore per chi sceglie di combattere in armi l’esercito occupante: lì ci potrei essere io.

Non può essere allora un caso se le immagini delle torture, con grande sdegno delle anime belle democratiche, siano uscite da un carcere dove non ci è scappato il morto. Non può essere un caso che solo a Santa Maria Capua Vetere i secondini sono stati così coglioni da lasciare le telecamere accese. La verità è che, ogni tanto, certe informazioni devono uscire. Perché siate tutti avvisati: i prossimi potrete essere voi!

Ma i massacri nelle carceri italiane sono stati, e sono tutt’ora, un test più profondo. Sono un termometro sociale sulla nostra assuefazione. Il potere ha voluto testare il grado di reattività, di dignità rimasto nella carne umana che vuole amministrare. Vuol vedere se siamo davvero pronti all’elettrificazione. A giudicare dal fatto che la stragrande maggioranza della popolazione quei morti non se li ricorda nemmeno, che se gli si chiede di pensare a ciò che è stato il marzo 2020 sono ben altri i ricordi (i domiciliari di massa, il terrore del virus), possiamo dire che l’esperimento è riuscito: il paziente è morto.

L’autunno che ci aspetta

Con queste premesse l’autunno che ci aspetta sarà un autunno di paure, dall’ansia per i sintomi influenzali all’ansia di perdere il lavoro. Sarà un autunno di restrizioni e di caccia alle streghe. Niente fa credere che sarà un autunno in qualche modo «caldo». Meglio dirci in faccia una sgradevole realtà che continuare a fare finta di niente, a inseguire e poi frustrarci al seguito del fallimento dell’ennesimo intervento sociale.

Nonostante questo triste quadro di partenza, i sommovimenti non mancheranno. La svolta autoritaria, la ristrutturazione digitale, l’elettrificazione sociale stanno già generando resistenze e disperazione. Resistenza e disperazione, insieme, sentimenti di chi sta con le spalle al muro, possono essere il prossimo detonatore sociale. Un rifiuto radicale di questo futuro obbligato sarà la prima mossa degli insorti.

In questo contesto, l’espressione più autentica della lotta di classe, sembra un paradosso, sarà proprio il nichilismo. Se un altro mondo è impossibile, allora la sola alternativa che ci avete lasciato è proprio nella mancanza di alternative, nella ferocia della bestia braccata. Un contraccolpo assoluto da questo mondo nel quale saremo sempre più stretti, sempre più poveri, sempre più ammalati.

Questa reazione però, se si limita a ciò, rischia anche di diventare l’ultimo colpo di coda di un’umanità ormai sottomessa alla dinamica impersonale dell’elettrificazione. Per fare questo secondo passo serve una fede, serve un mito, un orizzonte di (non) senso, un orizzonte che non c’è, che forse non ci sarà mai, ma che solo muovendo in marcia verso di esso possiamo rovesciare una storia già scritta. Una massa, una energia surreale che pieghi il tempo lineare della tecnica capitalistica. Tutto questo è profondamente umano.

Tutto ciò si fa anche con l’esempio: dimostrando che il potere è fragile, ha tanti punti deboli, può essere incrinato. Dimostrare coi fatti che la storia non andrà come vogliono lorsignori, che c’è chi è pronto a fargliela pagare salata.

La regione del mondo nella quale ci troviamo, quella governata dallo Stato italiano, è, tra l’altro, particolarmente strategica in questo quadro di ristrutturazione. Non è un caso che l’Italia è il Paese al quale sono stati destinati più soldi nel cosiddetto NextGenerationEU, ben 210 miliardi su 807.

Non è un gesto di bontà da parte del dominio europeo, ma la convinzione che l’Italia sia il grande malato del continente e il Paese che per primo rischia di infrangere il sogno del Super Stato Europeo. Questa montagna di soldi non sono solo un aiuto, ma rappresentano anche una catena. L’Europa vuole assicurarsi che lo Stato italiano non crolli e al contempo bloccarlo saldamente sotto il suo comando. L’instabilità dell’Italia oggi è una possibile, importante spina nel fianco per il capitalismo occidentale. Forse è proprio da quest’ultima considerazione che dovremmo cominciare ad agire.

[Settembre 2021]

PDF: Capitalismo ed elettrificazione.

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Originariamente pubblicato su: https://roundrobin.info/2021/09/capitalismo-ed-elettrificazione/

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Op. Scintilla - Un testo

Un percorso lungo due anni

Abbiamo deciso di prendere parola anche noi in merito alla dichiarazione rilasciata durante il riesame dell’operazione Scintilla nel febbraio del 2019.

Lo facciamo adesso in rete, a distanza di oltre due anni, forti di un lungo, faticoso e arricchente percorso.

La scelta di uscire ora su internet ha diverse ragioni. Di sicuro è motivata da un dibattito aperto da diversi mesi con compagni e compagne a noi vicine sulla necessità di allargare il racconto di quanto accaduto a chi è rinchiuso nelle carceri italiane, come a coloro che vivono fuori dai confini nazionali.

Dall’altra, l’incentivo arriva dai testi di recente pubblicazione, i quali aprono un piano di confronto al quale, per una completezza di narrazione, non sentiamo di sottrarci.

Precisiamo che, da subito non abbiamo ritenuto internet uno strumento idoneo ad affrontare quanto accaduto per la limitatezza di ragionamenti che questo strumento necessariamente impone. Non riconosciamo, infatti, questo spazio adatto a una discussione approfondita e sincera. Ci teniamo, quindi, a sottolineare i limiti che questo testo per forza di cose porta con sé, non potendo rendere la complessità dei ragionamenti e dei modi elaborati da quando abbiamo iniziato ad affrontare quanto da noi fatto.

Queste righe si pongono, comunque, due obiettivi:

– informare sui fatti quanti, nonostante gli sforzi fatti fino a ora, non lo siano, riportando una breve cronologia di quanto accaduto e aggiungendo alla fine del testo le parole della dichiarazione

– dare alcuni spunti rispetto al tentativo messo in campo per affrontare il nostro errore

I fatti sono questi:

Il 7 febbraio 2019, contemporaneamente allo sgombero dell’Asilo occupato, è scattata l’operazione Scintilla, indagine volta a colpire la lotta che allora si portava avanti a Torino contro i Cpr. Sei tra compagni e compagne sono stati portati in carcere con l’accusa in comune di associazione sovversiva, tre di loro con in aggiunta l’accusa di istigazione a delinquere e una con anche il fatto specifico relativo a una tanica di benzina posizionata fuori da un ufficio postale. Oltre ai sei arresti, una compagna è stata indagata a piede libero, mentre un’altra, accusata sia per l’associazione sovversiva sia per il posizionamento di un ordigno fuori da un ufficio postale, ha iniziato una lunga latitanza che è durata più di un anno e mezzo.

Per il riesame dell’operazione Scintilla, che si è svolto il 26 febbraio 2019, sono state depositate in aula quattro dichiarazioni individuali e una dichiarazione collettiva. La dichiarazione collettiva, per volontà degli stessi firmatari e dei compagni-e a loro più vicini, è stata, da subito, messa a severa critica.

Nonostante, al netto dell’errore fatto, niente possa suonare diverso da una giustificazione, ci teniamo noi per prime a riconoscerlo come tale.

Riconosciamo innanzitutto la problematicità del tono dell’intera dichiarazione e di alcuni passaggi in essa contenuti, ma più in generale e prima di ciò, riconosciamo di aver sbagliato a scegliere il tribunale come referente, senza esserci date il tempo idoneo a far maturare le parole e i concetti da esprimere, come pure gli obiettivi da raggiungere.

Pensiamo poi che sia stato un errore di metodo presentare una dichiarazione collettiva senza il necessario confronto né tra coimputati e coimputate, al momento detenuti in due carceri diverse, né con i compagni-e fuori con i quali si è lottato e, tra le altre cose, si è portata avanti la lotta contro i Cie-Cpr sotto accusa nell’operazione Scintilla. Inoltre, non tenendo conto che una compagna fosse ancora latitante l’abbiamo obbligata a confrontarsi con le conseguenze della nostra scelta sia in sede di tribunale sia, ancora oggi che è ai domiciliari, rispetto alla solidarietà che si poteva e si può sviluppare intorno alla sua situazione.

Come si è scelto di affrontarlo fino ad adesso e la possibilità di aggiungere un pezzo

Scegliere la strada per affrontare ciò che avevamo creato è stato difficile, a tratti molto lento e non lineare, anche perché se prima la scrittura ha vinto sul pensiero, dopo il pensiero ha di sicuro rallentato e a volte frenato la scrittura. Ogni passo è stato il frutto di molteplici confronti che ci auspicavamo, come minimo, potessero mettere d’accordo, man mano che venivano rilasciati, i diversi firmatari. Nel tempo, tuttavia, si sono incontrate divergenze nel modo affrontare il problema tali da farci talvolta prendere direzioni diverse.

Il metodo tentato ha avuto sicuramente la sua genesi nella fiducia che molte-i tra compagni e compagne hanno deciso di accordarci lasciandoci lo spazio di un percorso nel quale ci siamo messe-i in discussione, abbiamo accolto le critiche rivolteci ed elaborato i motivi del perché abbiamo sbagliato. A partire da questo, abbiamo deciso di far fronte alla situazione tentando di diffondere il più possibile quanto accaduto, ricercando un confronto diretto con compagni e compagne, vicini e lontani, conosciuti e non. L’obiettivo non era solamente quello di raccontare ciò che era successo, ma, problematizzandolo in tutti i suoi aspetti, di farne occasione di sincero dibattito con l’intenzione di trarne ragionamenti validi per tutti-e. L’intento è stato, inoltre, quello di cogliere il nostro errore come un’occasione di approfondimento che, travalicando il caso specifico, potesse riguardare oltre il rapporto con i tribunali e la repressione, anche altre questioni come le possibilità di divulgazione dei propri progetti di lotta o delle proprie prospettive rivoluzionarie.

In questo modo, pur nell’asprezza dei confronti e nella durezza delle critiche ricevute, siamo arrivate ad avere discussioni arricchenti che speriamo siano state tali non solo per noi e che ci auguriamo di avere anche con chi ancora non abbiamo raggiunto.

Dal nostro punto di vista, pensiamo di aver maturato in questi anni posizioni molto più solide, complesse e articolate, anche se mai arrivate, su molteplici aspetti che questa dichiarazione ha fatto emergere.

Ci teniamo a dire che niente di questa storia è stato a livello personale e pratico semplice da affrontare.

Ci interessa anche affrontare la critica di chi pensa che abbiamo facilmente voluto risolverci la questione in privato, per ribadire che non è stato questo a muoverci ma la volontà di arrivare anche molto lontano da noi, cercando, di volta in volta, di assottigliare il più possibile gli ostacoli del metodo scelto. È di sicuro vero però che a una diffusione quantitativa di quanto accaduto, che pure si è cercata, abbiamo preferito la qualità che i diversi passaggi ci potevano offrire nella direzione di un superamento delle ragioni che ci hanno portato a depositare in sede di riesame tale dichiarazione. Per questo nel sottolineare l’impegno da noi messo nel capire come superare le difficoltà che, di volta in volta, le distanze hanno imposto al metodo scelto, ci scusiamo per le volte che non ne siamo state capaci.

Ad oggi decidiamo di pubblicare il testo depositato in sede di riesame il 26 febbraio 2019 così che quelle parole possano essere lette da tutti-e e possano dare chiarimenti a chi non aveva elementi.

Crediamo nel confronto tra compagni e compagne, e continueremo a prediligere dei modi di discussione vis-à-vis, anche collettivi, per chi fosse interessato ad approfondire la questione.

Giada e Silvia

Dichiarazione depositata in sede di Riesame il 26/02/2019

In seguito alla lettura dell’ordinanza e a un primo confronto che siamo riusciti ad avere tra imputati detenuti nella medesima sezione della Casa Circondariale di Ferrara1 dichiariamo quanto segue (i virgolettati sono ripresi dall’ordinanza)

– di non far parte di alcuna “componente più ristretta e segreta” rispetto agli usuali frequentatori dell’ex spazio occupato denominato Asilo che normalmente ragionavano di presidi, cene benefit, concerti, picchetti, e iniziative varie.

– di non aver mai elaborato alcun “progetto” per la realizzazione dei reati scopo contestati ne alcuna “ripartizione di ruoli” o strategia, composta di “fasi” o di “livelli”.

– che l’idea o la volontà di offendere indiscriminatamente “un numero indeterminato di persone” quali potrebbero essere segretarie di ufficio, impiegati o passanti, in alcun modo ci appartiene.

– che tra il 2015 e il 2017 si è sviluppato, tra gli ambienti cosiddetti antagonisti, ma anche paraistituzionali, un dibattito riguardante l’utilizzo smodato e sovrastimato del DNA, quale elemento indiziario nei procedimenti giudiziari, inserito in una più ampia critica sul controllo sociale e sull’intrusività della tecnologia nella vita delle persone.

Un dibattito che ovviamente si è riflesso in svariate iniziative pubbliche, ma anche in chiacchierate più informali tra amiche e amici. In particolar modo ricordiamo svariate discussioni in merito all’intrusività della “Banca dati dei detenuti”, inserita poi in quegli anni, oltre che di alcune richieste di prelievi fino ad allora inusuali, legati a iniziative di piazza, anche in occasione delle proteste “No Expo”. Richieste di prelievo sulle quali alcune delle persone coinvolte avevano anche pubblicato su internet testi di critica e analisi.

Va inoltre sottolineato come in occasione degli arresti del 28/11/2016 a carico di alcune amiche e amici frequentatori dell’ex Asilo Occupato, tra cui l’imputata Silvia Ruggeri, apprendevamo per la prima volta del prelievo obbligatorio del DNA in caso di applicazione di misure cautelari, alimentando quell’ordine di critiche e ragionamenti poc’anzi esposto; anche perché non si sapeva se fosse stato possibile rifiutarsi, come se ne ha la possibilità in altri paesi come la Francia.

– Va infine sottolineato come molti frequentatori assidui dell’Asilo Occupato e partecipanti alle varie iniziative che avvenivano in quartiere, sono stati a più riprese sottoposti a misure cautelari nell’ambito di inchieste spesso riferite a fatti di lieve entità. In particolar modo si ricordano le inchieste e le misure del 18/12/2015 – 18/5/2016 – 29/10/2016 – 3/8/2017, misure poi cadute o ridimensionate dal Tribunale del Riesame di Torino e in alcuni casi che hanno visto l’assoluzione in fase di processo o pene pecuniarie di gran lunga ridimensionate rispetto alla sospetta gravità iniziale.

Motivo che portava molti amici e amiche a discutere sul clima intimidatorio posto in atto dalla procura verso le attività di lotta e protesta, utilizzando pratiche quali contestazioni e picchetti, soprattutto nei confronti di giovani che si avvicinavo a queste iniziative.


Note:

1)La dichiarazione è stata scritta nel carcere di Ferrara e sottoscritta anche dalle compagne al momento rinchiuse nella sezione femminile delle Vallette a Torino.

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Grenoble - In segno di solidarietà con Boris

Grenoble : In segno di solidarietà con Boris

In segno di solidarietà con Boris, in coma oramai da un mese in seguito ad un incendio nella sua cella, un veicolo di Orange [principale operatore telefonico francese, erede del monopolista di Stato, France Télécom; NdT] è stato incendiato davanti agli uffici di Orange, nel centro di Grenoble, la notte fra domenica e lunedì.

Perché Orange? Semplicemente perché abbiamo letto il resoconto del processo di Boris e abbiamo visto che Orange, tramite la sua avvocatessa, ha cercato di spingere il più possibile nella merda il nostro compagno. Evidentemente i giudici, la procura e i secondini sono tutti altrettanto responsabili della sua situazione, ma noi abbiamo voglia di cominciare una campagna contro Orange, perché quest’azienda è facilmente a nostra portata un po’ ovunque: pneumatici bucati, vetrine dei negozi infrante, scritte sui muri, macchine bruciate, ripetitori bruciati, etc. – ce n’è per tutti i gusti, per chi avesse voglia di partecipare a questa campagna, per mostrare che non dimentichiamo Boris e che pensiamo a lui, la testa alta, il cuore ardente!

Approfittiamo di questo breve comunicato per partecipare al dibattito sulla solidarietà anarchica. Per noi, questa solidarietà non dovrebbe limitarsi ai casi di repressione, poiché la società ha molte maniere di distruggerci e ci sembra importante che in tutti questi casi gli anarchici si sostengano, per dimostrare che l’affinità non è solo una parola vuota. Tanto più dopo l’inizio dell’epidemia di Covid, che ha isolato in maniera considerevole numerosi anarchici. Volevamo anche dire che la solidarietà non è soltanto l’attacco, che ci sono molte maniere di esprimere la propria solidarietà con gli anarchici attorno a noi.

Ne approfittiamo anche per esprimere ad alta voce il problema spinoso dei bersagli degli attacchi, che, in questi ultimi anni, sono diventati un punto in comune con i fascisti/cospirazionisti. Dai ripetitori telefonici (ricordiamo che su quasi tutti i processi per degli incendi di ripetitori, in Francia, Boris è stata la sola persona a non esprimere delle idee cospirazioniste) ai centri di vaccinazione. Cosa dice tutto ciò dell’anarchismo attuale? E come fare in modo che non sia possibile confondere le azioni anarchiche con le azioni dei cospirazionisti, e perché ciò è importante? Il fatto che, da settimane a questa parte, della gente di sinistra manifesti mano nella mano con dei fascisti/cospirazionisti dovrebbe allertarci sul pericolo insito nell’idea di lotta comune, che fa sì che ce ne freghiamo di sapere chi sono le persone con cui lottiamo, dal momento che abbiamo le stesse pratiche e lo stesso bersaglio. Dimentichiamo che queste persone di cui applaudiamo le azioni o con le quali manifestiamo hanno delle posizioni opposte alle nostre su quasi tutto e che in altri contesti saremmo noi i loro bersagli.

Molta forza e molto coraggio per Boris e i suoi cari!

Dei refrattari solidali

fonte: attaque.noblogs.org

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Green pass? Bloccare tutto

Astieniti da ciò che ha la testa sulle spalle, regola il passo su quello delle tempeste diceva un adagio di qualche tempo fa.

Oggi, mercoledì 1 settembre, è stato lanciato, in varie stazioni ferroviarie del Belpaese, un invito a bloccare i treni per criticare l’obbligo del green pass, necessario a chi vuole viaggiare su alcuni mezzi di trasporto. Cosa potrebbe accadere quando si ferma il treno della rassegnazione alla coercizione, sull’onda di «se non mi posso muovere io non si muove nessuno»?

Quando un ripetitore del controllo telematico viene attaccato, quando un centro vaccinale viene sabotato, quando un virologo che chiede il confinamento per chi non si vaccina viene affrontato in strada, quando un banchetto di partito viene ribaltato, quando si ha la brillante idea di iniziare a bloccare lo spostamento degli umani-merce, quante altre possibilità possono emergere? Quando una nascente protesta contro il green pass e il disciplinamento del movimento delle persone apre spazi a chiunque, senza leaderismi né servizi d’ordine, possiamo iniziare a sviluppare contenuti che mettano in luce le contraddizioni sociali, come risposta ai controlli sempre più asfissianti sulle nostre vite?

Esistono tante possibilità per far deflagrare l’insubordinazione in quanto individui pensanti. Da soli o insieme ad altri. Alla luce del sole così come nei bagliori della notte – con l’idea di rompere con tutto quello che ci soffoca – potremmo allontanarci dalla gabbia della politica e dalle catene del buon senso. Perché solo con un po’ di immaginazione si può tentare di vivere momenti inauditi di liberazione dalle costrizioni.

Bloccare tutto ringiovanisce per fermare un presente fatto di discriminazioni forgiate dal passato, ripristina la fantasia della riflessione, rende fecondo lo spirito di rivolta. A differenza di quanto riportano i vocabolari tecnici di regime, bloccare non è mai fine a se stesso, significa provocare crepe di senso, aprire spazi inediti là dove non riuscivamo a carpirli, creare inaspettati imprevisti, invitare a percorrere orizzonti sconosciuti, far scaturire occasioni per nuove sfide

Bloccare tutto, dunque, per aprirsi con fierezza alla vita e scoprire finalmente l’unicità di ogni individuo.

alcune e alcuni vagabondi

[volantino distribuito a Cremona, 1 settembre 2021]

fonte: finimondo.org

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Milano - La monocultura della mente

LA MONOCOLTURA DELLA MENTE – la colonizzazione di Amazzonia e Cerrado da parte dell’agroindustria

“I signori del potere sono seduti a parlare per decidere il futuro che ci devono dare”. Milano 2021, nel primo week-end di ottobre ospiterà la pre-cop 26, un incontro preliminare al summit internazionale sul riscaldamento globale. La prima COP si svolse a Berlino nel 1995, da allora la crisi climatica è solo peggiorata di anno in anno e le sue tragiche conseguenze iniziano ad essere evidenti e non riguardare soltanto le aree più calde del mondo. Questa estate gli incendi dovuti alla siccità hanno raggiunto il mediterraneo, mentre moltissime sono state le alluvioni con conseguenze letali.

Punti focali del summit saranno la decarbonizzazione mediante un sempre più massiccio utilizzo dell’idrogeno e del nucleare e l’elettrificazione dei veicoli da sostenere attraverso la realizzazione di “GigaFactories” in grado di produrre batterie con tecnologia avanzata. Non bisogna essere ingegneri per capire che queste non sono soluzioni, è evidente come l’obbiettivo di questi summit è difendere la produzione, cercare nuovi mercati e spartirsi ciò che ancora c’è da sfruttare. Inizia ad essere chiaro anche che la società industriale non ha gli strumenti per fare fronte alla catastrofe, non si può risolvere un problema con lo stesso tipo di pensiero che lo ha creato.

A fronte della fame di energia elettrica vengono ignorati i bisogni essenziali. Cosa mangiamo, dove viviamo e su quali basi sono costruite le nostre collettività. Per ogni bisogno semplice ed essenziale vengono proposte miriadi di servizi e prodotti che nascondono la miseria della quotidianità nella società industriale. Dal bisogno di ripartire da ciò che è essenziale nasce l’incontro “monocolture della mente”. Agroindustria, monocolture, allevamenti intensivi, grande distribuzione e fast food. Come la società industriale risolve il bisogno essenziale di cibo? In che modo la produzione tecnologica di cibo modifica i luoghi? La storia, relativamente breve, della colonizzazione dell’Amazzonia e del Cerrado da parte dell’agroindustria, mostra tutte le contraddizioni di queste pratiche.

L’Amazzonia è a un punto critico, in soli trent’anni, la deforestazione è avanzata fino a mettere in crisi l’equilibrio biologico millenario che sostiene il suo ecosistema. In Brasile, la foresta pluviale e la meno celebre savana del Cerrado stanno scomparendo, sostituite da enormi monocolture. Dove un tempo c’era una biodiversità selvaggia e incontaminata, oggi vi sono sconfinati campi, in cui un’unica pianta sterile si ripete serialmente fino dove lo sguardo può arrivare. L’invasione dei territori delle comunità indigene che da millenni abitano la foresta è l’esempio eclatante di come il capitalismo non permette alternative alla sua monocultura, o ci sei dentro o sei destinato a scomparire. La rapidità con cui questo sta avvenendo ci mostra la voracità, l’arroganza e l’impossibilità di convivere con questo sistema.

Le istituzioni affrontano i temi ambientali battendo sulla responsabilità civile dell’individuo, “chiudete l’acqua mentre vi lavate i denti, spegnete sempre tutte le luci, cercate di consumare meno carne e meno plastica, utilizzate i mezzi pubblici”; Questo approccio stride con la realtà di un mondo globalizzato in cui un numero relativamente ristretto di grandi multinazionali domina il mercato ed è responsabile della maggior parte dell’inquinamento e dei disastri ambientali che si celano dietro l’abbondanza della società capitalista.

Ci incontriamo per conoscere meglio la società in cui viviamo, i nomi dei grandi marchi che sfamano e affamano il mondo e il loro modus operandi. Ci incontriamo anche per condividere le forme di resistenza che le popolazioni espropriate dai loro terreni stanno mettendo in pratica e per capire in che modo contribuire alla resistenza contro la monocoltura dei campi e della mente.

23/09 dalle 18

Villa Vegan Occupata, via Litta Modignani 66, Milano

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Liguria - due giorni di incontri e camminate sull'Alta Via dei Monti Liguri

A conclusione del campeggio del 6-7-8 agosto contro la miniera di titanio sul Beigua la necessità espressa dai partecipanti e dalle partecipanti è quella di continuare ad incontrarsi, confrontarsi e conoscersi; guardandosi negli occhi e attraversando i luoghi minacciati da un’ennesima devastazione del territorio, consapevoli che questo è solo un piccolo sentiero tra quelli da affrontare per abbattere ogni forma di dominio e autorità.

Per questo invitiamo tutte e tutti a:

DUE GIORNI DI INCONTRI E CAMMINATE SULL’ALTA VIA DEI MONTI LIGURI

Sabato 18 settembre:

• Ritrovo ore 8.30 presso area picnic del Curlo (Arenzano –GE) da lì camminata per raggiungere la zona campeggio, il tragitto è di circa 1h30min. (agili!agili!)

• Allestimento del campeggio e pranzo al sacco

• Introduzione, proposte e organizzazione della due giorni

• Chiacchierata su esperienze di lotta contro l’estrattivismo

• Cena condivisa

Domenica 19 settembre:

• Laboratori (orienteering, tree climbing …) e camminata lungo l’AVML

• Pranzo condiviso

• Conclusioni finali

Info tecniche:

• Materiale: tenda, gavetta e posate, bicchiere, borraccia, sacco a pelo, vestiario comodo adatto a due giorni in montagna a circa 1000 s.l.m., kway, scarponi o scarpe tecniche, bussola (per chi la possiede!)

• Cibo: garantiremo una zuppa calda per la cena di sabato, per il resto porta ciò che vorresti trovare e condividere con tutti e tutte

Se hai necessità di materiale tecnico contattaci via email.

Per contatti:

delcoloredellaterra@anche.no

Per info e aggiornamenti:

delcoloredellaterra.noblogs.org

telegram: DELCOLOREDELLATERRA

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Originariamente pubblicato su: https://roundrobin.info/events/liguria-due-giorni-di-incontri-e-camminate-sullalta-via-dei-monti-liguri/